DIPENDENZA AFFETTIVA
La coppia disfunzionale: il fascino del male
Articolo scritto in collaborazione con le dott.sse Filomena Cerrato, Francesca Colangelo, Patrizia Mandrea e Alice Pirò in occasione del XXIX CONGRESSO NAZIONALE S.I.P.I. (Società Italiana di Psicologia Individuale) dal titolo “Coppie, famiglie e collettività: le costellazioni attuali” - Firenze 21-22-23 ottobre 2022.
I. le relazioni cooperanti tossiche
In un suo libro [1] Adler auspica la collaborazione tra i sessi consapevole che l’isolamento dai propri simili non è concepibile né utile alla società umana.
Spesso si riscontra nelle relazioni l’assunto erroneo che l’amore di un partner sia un obbligo per l’altra parte, che la persona sia vincolata al/la partner per il mero fatto di essere amata. Secondo Adler questi sono residui disfunzionali dell’infanzia e della relazione con la famiglia d’origine. L’eccesso è sintetizzato nel pensiero: “poiché io ti amo, tu devi fare così e così” [2]. Si evidenzia in tal modo come il bisogno di potere di un membro della coppia, con la scusa dell’amore, voglia condurre l’altro all’interno del proprio schema mentale. Allo stesso modo all’interno della coppia adulta si instaura un gioco di potere per cui l’uno agisce un “io faccio qualunque cosa ma non lasciarmi” e l’altro risponde con un “tu devi essere come voglio io perché io devo provare a me stesso che esisto svalutandoti”. In questo senso il soggetto più debole, dipendente, sempre per ricevere amore, modificherà le sue espressioni e aspirazioni modellandole secondo i desideri del membro più forte. Nelle narrazioni passate è sempre presente un senso di inadeguatezza latente che, a fronte di una persōna in apparenza autonoma e strutturata, porta l’individuo a soccombere laddove si presenti quello specifico uomo o donna con il “phisique du role” necessario a riportare alla luce quella dinamica irrisolta che ha radici lontane. Non a caso nella storia personale di questi soggetti ritroviamo le medesime dinamiche applicate, nel tempo, alle molteplici relazioni vissute, in un’incapacità generale di viverne di buone e con la tendenza a ripetere modelli disfunzionali lungo una costellazione di rapporti tutti molto simili caratterizzati dall’instaurarsi di forme di reciproca dipendenza /sopraffazione.
In entrambi i membri della coppia c’è il desiderio di esperire una volontà di potenza che li conduca ad attuare il fine ultimo della vita (formantesi nei primi anni di vita, connesso alle esperienze di attaccamento e adattamento che avvengono nell’infanzia) di ognuno di loro, che si coniuga in un assoggettamento del partner per la personalità narcisista, e nell’essere visto, riconosciuto, “amato” (di un amore disfunzionale e distruttivo ma significativo, fondato su una cognitività distorta) per quella dipendente. L’”altro” della coppia è oggettivato, deumanizzato, soggetto alla conferma di finzioni errate poste sul lato inutile della vita, trasformate ormai da un agito abitudinario a base strutturale di uno stile di vita disfunzionale che, come già detto, si riattualizza costantemente lungo una costellazione di relazioni disfunzionali.
Il membro debole, sicuramente afflitto da un complesso d’inferiorità e da una scarsa assertività, avrà la credenza errata di essere amato se assoggetterà il suo essere al volere del più forte, unitamente a un possibile atto di “salvezza” del partner, il quale spesso presenta un qualche tipo di dipendenza o un carattere collerico con scarso controllo degli impulsi. I membri della coppia sono come due poli opposti che si attraggono: l’uno è necessario all’altro in una danza distruttiva dove il concetto di amore non è mai stato scientemente ed emotivamente esperito in modalità sana da nessuno dei due, confusi in una richiesta reciproca di ammirazione, sudditanza, testimonianza di esistenza e di identità, gioco di ruoli finzionali che poco hanno a che fare con un sentimento che richiede autonomia, responsabilità, rispetto, fiducia e libertà. Se in un amore infelice o che non funziona si rimane comunque entro il range del non patologico, in questi casi si percepisce tuttavia una sorta di nostalgia legata a una fusionalità passata che trova una riattualizzazione nell’incastro con l’altro.
Non a caso il ciclo della dipendenza affettiva ricorda molto da vicino quello delle sostanze: allo stesso modo si ha un disagio in crescendo che diventa craving e che impone il consumo della relazione, più che il suo vissuto, seguito da un momento di plateu, di appagamento, che dura sempre meno nell’intervallo del ripresentarsi della sofferenza. E, come per le sostanze, la sensazione che si ha in terapia è quella di un paziente in fase regressiva, che si presenta davanti a noi come un adulto ma che parla e si emoziona come un bambino. Come affermato con forza e con estrema chiarezza già da Rovera nel 2016 [3] possiamo generalmente trovare la radice psicopatogenetica della sofferenza in “una posizione erroneamente fissata rispetto a ferite psicologiche "centrali della propria autostima, molto precoci, profonde e respinte nell'inconscio”.
Ciò può derivare da molteplici fattori: il temperamento, malattie patite fin dalla tenera età, educazione troppo rigida o troppo permissiva, un contesto non consono, eccetera. I due membri della diade non hanno saputo compensare sul lato utile della vita il sentimento d’inferiorità volgendolo verso una sana aspirazione alla superiorità, tanto che il primo si sclerotizza divenendo complesso. Il sentire di questi pazienti è pregno d’inadeguatezza, impotenza, debolezza e bisogno: una vera e propria dipendenza da relazioni disfunzionali.
Nella formazione di una personalità narcisistica, al contrario, il sentimento d’inferiorità subisce una supercompensazione che innesca un complesso di superiorità. Le finalità compensatorie sono altamente ambiziose, enfatizzano l’autostima e riducono fino all’annullamento la considerazione dell’altro. Nel PDM-2 [4], Kernberg descrive alcuni di questi pazienti come intrisi di “narcisismo maligno” che è misto ad aggressività sadica e si esplica in agiti violenti sia di stampo verbale che fisico, come purtroppo la cronaca testimonia da molti anni.
In questo senso possiamo senz’altro definire questi rapporti “relazioni cooperanti tossiche”.
II. Un caso clinico: la signora B.
B., 47 anni, due figli da due diversi matrimoni di cui l’ultima dall’attuale compagno, sembra manifestare una tendenza a ricercare uomini dai tratti narcisistici, dominanti e violenti con cui formare relazioni sentimentali stabili che, seppur abusanti, sembrano ben incastrarsi con il suo stile di personalità dipendente.
Analizzandone la storia personale si nota un filo rosso che, a partire dalla relazione materna, fa sì che B. possa ricevere amore solo dopo essersi data completamente all’altro.
Primogenita, riceve l’amore della madre ed è una figlia meritevole solo su ricatto quando si sia prima occupata del fratello e della sorella più piccoli e delle esigenze della madre stessa. B. esiste solo se compie il suo dovere, e tale sarà anche la sua relazione coi fratelli e poi coi figli.
Con gli uomini, allo stesso modo, vive la relazione solo attraverso l’occuparsene e, anzi, sviluppa l’idea irrazionale che proprio attraverso il suo amore annullante potrà cambiarli, rendendoli migliori e dovendo in questo modo di ritorno riceverne altrettanto amore in cambio. Attraverso il percorso di psicoterapia sviluppa la consapevolezza che questo fa sì che gli altri esercitino un potere su di lei facendola tornare a sentirsi eternamente quella bambina ingrata che non vuole “aiutare” le persone che la amano, prendendosene cura.
III. Conclusioni
Quanto discusso ha, a nostro modo di vedere, implicazioni innanzitutto metodologiche: se accettiamo il presupposto teorico che la relazione disfunzionale in qualche modo compensa aspetti di insicurezza antichi propri dell’individuo, per quanto questa compensazione nel presente si realizzi in modo disfunzionale, dobbiamo allora comprendere come instaurare un cambiamento nel paziente così che egli non ricerchi, in futuro, relazioni analoghe.
La psicoterapia diventa dunque quello spazio protetto e non giudicante all’interno del quale fare esperienza delle proprie dinamiche relazionali innanzitutto da un punto di vista affettivo così che le emozioni possano essere vissute ma, parimenti, anche discusse con l’analista in una sorta di simulacro del proprio funzionamento nella vita quotidiana.
Nel poterne parlare il paziente potrà così appropriarsi anche della componente cognitiva che sottende a dinamiche che altrimenti rimarrebbero prettamente emozionali e, proprio perché legate a dinamiche passate, inconsapevoli.
Il soggetto non sarà a questo punto comunque in grado di evitare che tali elementi affettivi si manifestino (e forse non lo sarà mai) ma potrà “osservarli mentre accadono”. Ed è proprio questa capacità di “vedere e pensare l’emozione attuale” leggendone le origini passate che permette, in una dimensione prospettica futura, la ristrutturazione del pensiero legata a chi vogliamo essere e ciò di cui realmente abbiamo bisogno, in un ricongiungimento dell’affettività con la dimensione presente e adulta che sia di cambiamento assertivo.
Senza questo passaggio di presa di consapevolezza la parte affettiva antica rischia di rimanere in agguato sotto la superficie, agendo inconsciamente in un meccanismo di coazione a ripetere che rischia di non poter venire scardinato dando luogo alla ricerca di ulteriori partner abusanti che tuttavia, ancora una volta, assolvono alla loro funzione compensatoria di sicurezza.
Bibliografia
1 ADLER, A. (1912), Il temperamento nervoso, Astrolabio, Roma, 2003.
2 Ibidem, p.137.
3 ROVERA, G. G. (2016), Aspetti analitici della regressione. Riv. Psicol. Indiv., n. 80: 51-61.
4 LINGIARDI V., MCWILLIAMS N., a cura di, (2020), PDM-2, Manuale Diagnostico Psicodinamico, Raffaello Cortina Editore, Milano.